Il vento ululava oltre le finestre, scuotendo i rami nudi degli aceri come dita scheletriche contro il vetro. Rimasi immobile sulla soglia, i fiocchi di neve che si scioglievano lentamente sui miei capelli, trasformandosi in gocce fredde che mi scivolavano lungo il collo.
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Elita era seduta sul divano, avvolta nel mio maglione grigio, quello che le rubavo ogni mattina e che ormai conservava solo il suo profumo.
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Le sue mani stringevano una tazza di cioccolata, il vapore che saliva a disegnare spirali evanescenti nell'aria gelida.
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La guardai.
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Un fiume di parole mi risalì la gola
- Dove sei stata? Perché sei sparita? Cosa mi stai facendo? - ma si dissolsero tutte nel momento in cui incrociai il suo sguardo. Quel colore glaciale che ormai conoscevo meglio del mio stesso riflesso.
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Feci due passi avanti. Poi altri due.
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Le mie scarpe bagnate lasciarono impronte oscure sul pavimento mentre attraversavo la stanza in un silenzio carico di tempesta.
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Elita non si mosse, non parlò, semplicemente alzò il viso verso di me, offrendomi quelle labbra pallide che conoscevo ormai a memoria.
La afferrai con una forza che non sapevo di possedere.
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Le mie mani le serrarono i fianchi attraverso la stoffa sottile del maglione.
Il bacio fu il tentativo disperato di un uomo che cerca di fondere due corpi in uno solo.
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Elita emise una via di mezzo tra un gemito ma non si sottrasse.
Anzi, le sue braccia mi si avvitarono attorno al collo le unghie che mi graffiarono la nuca attraverso i capelli umidi.
Quando finalmente ci separammo, la tenni stretta a me, la fronte premuta contro la sua, il respiro affannoso che si mescolava al suo.
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-Non farlo mai più,- sussurrai, la voce rotta da un tremito che non riuscivo a controllare. -Mai.-
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Elita annuì, lenta, deliberata. I suoi occhi scrutavano il mio volto come se stessero leggendo ogni microespressione, ogni sfumatura di paura e bisogno che non riuscivo a nascondere.
Mi guardava come se sapesse già.
Come se avesse sempre saputo.
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Poi si avvicinò ancora, il petto che mi premeva contro mentre un dito sottile mi sfiorava le labbra, ancora umide del suo bacio.
-Il legame ti ha raggiunto, vero?-
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Trasalii, scostandomi di un passo. La schiena urtò contro il tavolino del soggiorno, facendo cadere una pila di libri che si sparsero sul pavimento con un tonfo sordo.
-Cosa?-
Elita si alzò in piedi con la grazia di un gatto, il maglione che le scivolava da una spalla, rivelando un lembo di pelle così pallida da sembrare traslucida alla luce del lampadario.
-La paura di perdere. Tutto questo...-, la sua mano fece un gesto vago tra noi due. -Sei entrato nel mio mondo.-
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Un brivido mi percorse dalla nuca alla base della schiena.
Volevo negare, volevo ridere di quell'assurdità, ma la verità era lì, palpabile come il battito cardiaco che mi martellava nelle orecchie.
-Adesso sei dentro di me,- continuò Elita, avanzando di un passo. -E io dentro di te.-
Avrei voluto protestare, avrei voluto urlare che era pazza, che tutto questo era impossibile.
Ma ogni cellula del mio corpo sapeva che era la verità.
Non potevo più stare senza di lei.
E lei, maledizione, lo sapeva.
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I giorni che seguirono scivolarono via come neve polverosa al vento.
Dormivamo avvinghiati ogni notte, corpi intrecciati sotto le coperte come radici nello stesso terreno. Mi svegliavo spesso nel cuore della notte, il petto premuto contro la schiena di Elita, un braccio gettato sul suo fianco, come per assicurarmi che non potesse svanire di nuovo.
Di giorno, ci toccavamo con una frequenza quasi patologica.
Una mano che sfiorava un braccio passando, una spalla che si appoggiava all'altra mentre preparavamo il caffè, le dita che si intrecciavano distrattamente sul divano durante i film.
Ogni contatto era una conferma, un promemoria che l'altro era ancora lì.
Bastava che le labbra di Elita sfiorassero le mie, ed ogni pensiero razionale si dissolveva in una nebbia bianca. Le preoccupazioni per il lavoro, i messaggi non risposti degli amici, perfino il ricordo inquietante di Josh e Kayla - tutto svaniva, lasciando solo una pace euforica che avvolgeva la mia mente come una coperta pesante.
Smisi gradualmente di rispondere ai messaggi.
Prima quelli dei colleghi, poi degli amici più lontani, infine anche di quel vecchio compagno di scuola che ogni tanto mi invitava a bere una birra. La mia routine si ridusse a due punti fissi: l'officina e Elita.
La gente cominciò a sparire dalla mia vita come fantasmi al sorgere del sole. Alcuni provarono a cercarmi, a chiamare, ma ogni tentativo si scontrava contro il muro di indifferenza che cresceva dentro di me giorno dopo giorno.
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E attraverso tutto questo, Elita rimaneva.
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L'unica costante nel mio universo in frantumi.
A volte, raramente, nei momenti di lucidità - quando Elita era sotto la doccia o uscita a comprare del latte - mi sedevo sul bordo del letto, le mani che stringevano i capelli, e lasciavo che i dubbi mi assalissero.
Cosa stava succedendo? Perché non riuscivo più a pensare chiaramente quando ero lontano da lei? Perché ogni volta che provavo a immaginare una vita senza Elita, il panico mi assaliva come un animale ferito?
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Poi la sentivo rientrare, la chiave che girava nella serratura, i passi leggeri nel corridoio, e ogni pensiero razionale si dissolveva come neve al sole.
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-Tutto bene?- mi chiedeva Elita, posando una mano sulla mia spalla, le dita che mi sfioravano la nuca.
Alzavo lo sguardo su di lei, e ogni volta era come vederla per la prima volta - quel viso da angelo decaduto, quegli occhi che sembravano contenere oceani di segreti.
-Tutto bene,- rispondevo, e quando lei si chinava per baciarmi, il mondo fuori cessava di esistere.
Era perfetto.
Era terribile.
Ogni bacio era una gabbia.
Di seta.
Di pelle.
Di ossa.
E non sapevo più se volevo uscirne.
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