Quella notte la pioggia ghiacciata martellava i vetri come dita tremanti sul coperchio di una bara. Era tardi, l'officina era vuota, e io non riuscivo a dormire.
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Avevo lasciato Elita nel nostro letto, nuda e immobile come un sogno che non si osa toccare. Ogni parte di lei era scolpita nella mia memoria, eppure ne volevo ancora. Sempre di più. Ma quella notte qualcosa mi chiamava altrove. Forse era la paura. Forse era solo il bisogno disperato di ricordare chi fossi, prima che lei arrivasse.
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Il neon tremolava sopra il banco da lavoro. Il motore di quella vecchia Mustang giaceva smontato davanti a me, freddo, denso di olio rappreso. Le mie mani si muovevano meccanicamente. Cercavo rifugio nel metallo, nel grasso sotto le unghie, nel suono secco degli attrezzi. Era l'unica cosa che sembrava ancora mia.
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Finché non mi tagliai.
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Un graffio netto sul palmo, come un confine tracciato d'improvviso tra me e me stesso. Una lama sottile della guarnizione spezzata. Il sangue uscì subito, rosso, vivo, incontrollato. Non un taglio profondo, ma bastò.
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Il dolore mi trafisse dritto al cuore. Non per la ferita in sé, ma per la consapevolezza che ne seguì: quella pelle lacerata, quel bruciore insistente, erano reali. Erano miei.
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No. Quella notte, il taglio rimase. E bruciava.
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Mi sforzai di respirare piano, guardando il sangue colare tra le dita e gocciolare sulla carcassa del motore. Una goccia dopo l'altra. Nessun sollievo. Solo dolore.
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Rimasi lì, seduto sullo sgabello, la mano stretta in un panno da officina, gli occhi persi nella pioggia che scivolava lenta sui vetri.
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Elita mi aveva detto qualcosa, giorni prima.
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– Ti sto cambiando. –
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Avevo finto di non capire. Ma dentro di me lo sapevo. Come se il mio corpo stesso si piegasse alla sua volontà, come se il mio pensiero diventasse riflesso dei suoi occhi.
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Quella notte lo sentii con chiarezza. Nel dolore vero. Nel sangue che non si fermava. Io c'ero ancora. E avevo paura.
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Quando tornai a casa, l'orologio segnava le tre passate. L'aria era gelida, e il corridoio sembrava più lungo, più silenzioso del solito. La trovai in camera, proprio dove l'avevo lasciata. Seduta sul letto, nuda, le ginocchia raccolte.
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Mi guardava.
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– Ti sei fatto male. – disse, senza sorpresa.
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Non le risposi subito. Mi tolsi la giacca, la camicia, rimasi in canottiera, col sangue rappreso sul palmo. Lei lo vide. Si alzò lentamente e venne verso di me.
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– Fammi vedere. –
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Scostai la mano, mostrandole la ferita. Lei la sfiorò con le dita fredde.
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– Perché non guarisce? – domandai, con un nodo in gola.
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Lei chinò la testa. I capelli neri le ricadevano sulle spalle come ombre.
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– Perché stai resistendo. –
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Scossi la testa.
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– No. Io... non voglio sparire. –
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Lei si avvicinò ancora. Mi spinse contro il muro con dolcezza. I suoi occhi erano laghi ghiacciati.
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– Non sparirai. Sarai parte di me. Sempre. –
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– Non è la stessa cosa. –
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Mi prese il volto tra le mani.
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– Vuoi che mi fermi? –
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Tremavo. Ma non parlai. Non potevo. E lei lo sapeva.
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Le sue labbra si posarono sulle mie. Calde, profonde. Ma qualcosa era cambiato. Non c'era solo desiderio, stavolta. C'era bisogno.
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Mi portò a letto, lentamente, come la prima notte. Ma non era la prima. Era l'inizio della fine.
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Mi strinse a sé, e io mi persi ancora. Ma nel cuore, nel taglio che ancora bruciava sul palmo, sentivo una voce. Debole. Umana. Mia.
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La neve cadeva fuori, lenta, incessante. Dentro, il fuoco divorava.
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E io non sapevo più se volevo essere salvato.
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