La stanza sapeva ancora di lei.
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Il profumo dolce e freddo della sua pelle era rimasto intrappolato nelle lenzuola, nei cuscini, persino nell’aria che respiravo. Era come se la neve si fosse sciolta dentro il mio letto, lasciando dietro di sé qualcosa di vivo. Un’eco, forse. Un’impressione sotto la pelle.
Elita dormiva ancora. Nuda, coperta solo in parte dal mio piumone. Una gamba era piegata, l’altra stesa, un braccio sotto la testa. I suoi capelli scuri disegnavano forme lente sul cuscino. Respirava piano, quasi senza peso. Sembrava irreale, come una figura scolpita nel vetro freddo.
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Mi alzai in silenzio. Camminai scalzo fino alla cucina. La luce era grigia, appena filtrata dal bianco assoluto che continuava a posarsi fuori.
La tempesta si era calmata, ma la città restava congelata in un silenzio irreale.
Misi su la moka. Era una mattina di vetro, come quelle dopo una lunga notte di febbre. Le mani mi tremavano appena.
Perché qualcosa in me era cambiato.
Non riuscivo a smettere di pensare al modo in cui mi aveva guardato mentre facevamo l’amore.
Come se sapesse ogni mio pensiero ancora prima che lo formulassi.
Era stato bello. Era stato tutto. Ma qualcosa in quegli occhi mi aveva scavato dentro.
Mi chiesi, per un istante, se lei avesse sentito la stessa cosa.
– Sei sempre così silenzioso al mattino?-
Sussultai.
Elita era sulla soglia della cucina. Indossava solo la mia camicia, troppo larga per lei. Le arrivava a metà coscia, eppure non copriva abbastanza da non farmi tremare lo sguardo. I suoi capelli erano arruffati, le pupille limpide.
– Solo quando non capisco dove finisce il sogno. – dissi, cercando un mezzo sorriso.
Lei si avvicinò, scalza, le gambe nude, il corpo come inciso nell’aria. Appoggiò le mani sul piano della cucina. Si avvicinò, fino a sentire il mio respiro.
– E tu lo sai dove finisce?-
– No. Ma stanotte… era tutto reale.-
– Sì – mormorò. – Era reale.-
Mi baciò. Lenta, con le labbra socchiuse, quasi assaporando il momento. Non era solo dolcezza. Era come se ogni volta che mi toccava dovesse ricordare a sé stessa che il mio corpo era vivo, presente. Come se non fosse del tutto certa di poter restare. O che io potessi farlo.
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Passammo il giorno chiusi in casa.
Il vento fuori ululava come un cane randagio. Ogni tanto una raffica scuoteva le finestre, ma all’interno regnava una calma sospesa. Guardammo un film senza seguirlo davvero. Lei si strinse contro di me sul divano, una coperta sulle gambe, le dita intrecciate alle mie.
Non parlammo molto.
Ogni tanto le lanciavo uno sguardo. C’era qualcosa in lei che continuava a eludermi.
O forse c’era troppo.
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La sera, lei volle uscire.
– Hai nevicato per due giorni, Alex. Ci meritiamo una camminata.-
– Fuori fa meno quindici.-
– Per me non è un problema.-
Disse proprio così. Non "ce la possiamo fare" o "andiamo comunque".
No. "Per me non è un problema".
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Camminammo lungo la via ghiacciata che portava al lago.
Le luci dei lampioni tremolavano nella nebbia gelida.
Le nostre ombre si allungavano sull’asfalto. Nessuno in giro. Solo noi due e il rumore attutito dei nostri passi sulla neve gelata.
A un certo punto, lei si fermò.
– Guarda.-
Seguii il suo sguardo.
Il lago era lì davanti, invisibile e immenso sotto la bruma. Ma non guardava l’acqua. Guardava il cielo.
Nuvole basse, bianche. Si muovevano lente, come se stessero trattenendo qualcosa.
– Hai mai pensato – mormorò – che le nuvole ci guardano?-
– Non credo. Siamo troppo piccoli per loro.-
– Ma non per tutto.-
Mi prese la mano.
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Quella notte, Elita dormì di nuovo da me.
Ma non facemmo l’amore.
Fu come se, per un istante, fossimo tornati umani. O come se lei avesse bisogno di ricordare cosa significhi essere semplicemente vicini, pelle contro pelle, senza fame.
Dormimmo abbracciati. Ma io non dormii del tutto. Rimasi a fissare il soffitto, ad ascoltare il suo respiro profondo, il suo battito lento.
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