La prima cosa che notai al risveglio fu il freddo.
Non il solito brivido del mattino, ma un'ondata di gelo che sembrava venire dal mio stesso petto. Aprii gli occhi con una sorpresa, le braccia già tese verso il lato vuoto del letto. Le lenzuola erano lisce, fredde. Elita non c'era.
Mi sedetti di scatto, il cuore che batteva a martello contro le costole.
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-Elita?-
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La chiamai a voce bassa prima, poi più forte quando il silenzio mi rispose. Scattai in piedi, i piedi nudi che affondavano nel tappeto mentre percorrevo la casa in una frenesia crescente. Cucina vuota. Bagno vuoto. Salotto deserto.
Fu allora che lo sentii.
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Un vuoto.
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Non solo nella casa, ma "dentro* di me. Come se qualcuno avesse strappato via una parte di me lasciandomi un buco che il vento attraversava.
Respiravo a fatica, le mani che si stringevano a pugno contro lo sterno, come se potessi fermare quella sensazione di lacerazione.
La mia ombra sembrava più lunga del solito mentre mi vestivo in fretta.
Ogni movimento era meccanico, ogni respiro un'impresa.
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L'officina era un inferno di rumori metallici e odori chimici quel giorno.
-Anderson! Quella Ford Fiesta è pronta?-Josh - no, non Josh, Josh era morto, allora perché continuavo a pensare a lui? - uno degli altri meccanici mi urlò da sotto un cofano.
Annuiì senza convinzione, le mani che lavoravano da sole mentre la mia mente era altrove.
Ogni attrezzo che toccavo sembrava scottare, ogni rumore mi trafiggeva il cranio come un chiodo.
Era la prima volta che capivo davvero la natura del legame.
Prima di Elita, ero solo. Dopo di lei, ero mezzo.
E ora che mancava, mi sentivo stranito.
Sudavo nonostante il freddo, le dita che tremavano mentre regolavo i freni della macchina.
Ricordai le sue mani sulle mie, quella notte, il modo in cui le nostre menti si erano sfiorate. Ricordai la promessa non detta:
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Non potrai più nasconderti da me.
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E ora era lei a essersi nascosta.
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La pausa pranzo la passai in macchina, il telefono stretto tra le dita come un'ancora di salvezza.
Chiamai per la terza volta, ascoltando il tono vuoto che risuonava nell'auricolare.
-Rispondi, dannazione,- mormorai, la fronte appoggiata al volante gelido.
Fu allora che lo sentii.
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Una sensazione.
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Non sulla pelle, ma "dentro" , come se qualcuno avesse passato una mano ghiacciata attraverso la mia gabbia toracica.
E poi - un sussurro, non nell'orecchio ma direttamente nella mia testa.
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"Non così forte. Ti sento."
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Il telefono mi scivolò di mano. Era lei. Da qualche parte, in qualche modo, mi stava ascoltando.
E io?
Io non potevo far altro che aspettare, quel buco nel petto che pulsava al ritmo di un cuore che non era il mio.
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Quando tornai a casa quella sera, la porta era socchiusa.
Un odore di cioccolata calda e neve bagnata mi avvolse quando entrai.
E lì, sul divano, con indosso il mio maglione e i piedi nudi sotto di sé, Elita mi aspettava.
I suoi occhi brillarono quando mi vide, ma non disse nulla.
Non c'era bisogno.
Il vuoto nel mio petto si riempì all'istante, e per la prima volta in quel giorno interminabile, respirai davvero.
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